Andrea Zanzotto, Conglomerati, Lo Specchio Mondadori, 2009

 

Elleboro: o che mai?

 

I Parte

 

In ogni stanza, in ogni riposto

interstizio t’incontro, v’incontro,                     elleboro

mazzi dal nascosto e sotterraneo piede

di medicata follia Elleboro

multipli e dolci come le vostre carezze

di foglie che riconducono

dalla stanza della casa

a quella della valletta

più mitemente persa e bagnata in se stessa              Elleboro nome

e nel proprio invernale interstizio                                di tante specie di  piante

nel proprio radicato indizio                                       legate in enigmatiche

di bellezza o cupezza comunque in delirio.                  similarità di radici

Leggerissimo darsi, accarezzato                               rizomi di veleni

in sé, espanso in entusiasmo pacato                         convergenti talvolta

Oh, calma, calma, elleboro                                      alle rosalità più fonde

sono le tue doppiezze e le tue corolle-carezze            (dai vocabolari)

umili come le guarite follie

in queste serie di stanze

surrettiziamente sbocciate e poi rimediate                  Elleboro

strisciando

Elleboro non è più il tuo nome

in certi vaghi errori delle stagioni

sei carneval che è distanza e capitombolo

nel mondo rovescio in cui tu t’insinui

per domestici poggi lungo parchi e pacati nomi

di camaleonte appena visibile, ma

presente piantina sorellina per noi forse morta

nel voler guarire le nostre follie –

negli interstizi, nelle stanze arpie

della casa e non casa, del poema dalle più

minacciose regole e dissimmetrie.

Oh addio alla tua carnevalesca                                  Elleboro

e rosea sbaciucchiata

improvvisa risorgiva e poi rapida sparizione.

Porta con te quanto v’è di più riposto

e sovradegno e scottante di febbri

nel lume d’acari torvo dei tappeti di interni,

medicamento che rendi medicamento

il tuo stesso slittare nel collegarti con l’idea

di follia, così che a star lungi da lei ci governi

sparendo-sparire

ìnterstiziare-folle di fogli rosa

pozione-consumi di foglie forse nera megera.

 

 

II Parte

 

Ma dove l’errabondo nostro destarci nelle

tue serpentine ed innocenti trame

dove del bene mentale la fame

sazi, in che spazi, in che vuoti di altro potere.

Non sogno non stasi non ardore Elleboro

che appropri ad ogni creatura

ogni distanza da sé, e la chiami

o col puro non lasciarti trovare la ridoni a sé –

qua e là per l’immenso delle stanze

improvviso fogliare fino al nero di petali neri

davanti ad essi m’accorgo, mi faccio accorto

davanti alla finestra che dà sui monti e sul

guarire sempiterno. E le trame

del guarire anelate e il guarire sempiterno e i materni

abiti, e gli abiti e le livree del guarire scoppiettanti

di luci esterne, di colpo mi nascondi, o a bassa voce

proponi e vanti

come vorrebbero essere le parole, ma qui

slittano in paralisi, in interni di poesia – [così] e [così.]

Cadono invece tacendo ceree circostanze                         Elleboro

di petali – da bianchi a neri -

a dir-deridere (driadi consentendo e ninnoli di

boschi-interni) quel che fu di ogni amore-follia

di ogni acronimo

di ogni rebus di spiriti-follia.

 

E intanto, nel tremendo degli interni

ti fai fiore di luna e brina e d’alba fina tra mani

raccolta – alba di mente rara e peregrina,

che ogni vertice o radice osò mutare

in tetra umiltà. Trattienici tu donato a tanti

angoli rapiti, della casa, del crepuscolo-casa                   Elleboro

trattienici con te e col mondo non con forze

quasi d’ipnosi, ma di rosee fasi

tra negre radici e petali del verde; forza tu

in alleviate traiettorie, dà

ipnosi invece a ogni schizoma, triaca1

sii dì millesimi di varietà d’esseri

condita, degnità che placa,

risanaci o precoce o antico o in fuga o immobile

alone che disperde e inganna

tu portato su da paludi d’interni

del più antico latte, lattice, che brilla,

e acceca per nerezza

steli e petali e radici di Sibilla.

 

 

1. Medicina antica e “statale” di Venezia, la triaca si componeva di tanti elementi ed esisteva nelle farmacie anche una quarantina d’anni fa. Ricordo della panacea.